In queste parole di Piero Scanziani, grande scrittore e conoscitore di cani, c’è una verità assoluta e importante, che ho scoperto leggendo il suo libro Il cane utile. Una riflessione meravigliosa che io, personalmente, non avevo mai fatto e proprio per questo ho trovato illuminante. Un pensiero che sottolinea e definisce per sempre l’importanza che il cane ha avuto per l’evoluzione dell’uomo. E che ha sancito indissolubilmente il loro rapporto di amore reciproco e amicizia fedele. “Se il cane non fosse esistito voi non leggereste questo libro e io non l’avrei scritto, giacchè l’umanità sarebbe analfabeta. E’ stato il cane a far uscire l’uomo dallo stato di selvatichezza e ad offrirgli gli albori della civiltà”. Scanziani ci spiega come senza il cane l’uomo sarebbe rimasto per sempre un cacciatore semiaffamato e seminudo impegnato ogni giorno nella ricerca della preda per sfamare se stesso e i suoi. Sempre che la fame gli poteva permettere di pensare a qualcuno al di fuori di sé. Ma il cane, prosegue Scanziani, lo ha fatto divenire pastore. “Un uomo con tre cani cura cento pecore, solo non ne cura tre”. E pastorizia significa cibo assicurato e vestiti di lana. L’uomo che non deve più affannarsi per cacciare e può vivere dei prodotti della pastorizia diventa più sereno e placido. Ma senza cane anche niente astronomia. Infatti il pastore ha molto più tempo per oziare e pensare. E così può cominciare ad osservare il sole, le stelle, le ellissi e verificarne il corso. Ha il tempo per disegnare, come Giotto che fu pastore, e di scrivere. E può compiere quel passo importante che lo trasforma da animalesco abitatore delle caverne a pensatore virtuoso. “Senza cane, niente virtù”. Non si può chiedere ad un selvaggio di essere virtuoso. Un uomo che vive sempre in agguato o nella paura di un agguato altrui. Un uomo vestito di pelli insanguinate che non ha tempo per fermarsi a pensare. La virtù ha bisogno di calma. E i figli dei pastori, che si nutrono di latte e formaggi, sono più sereni e meno istintivi dei frenetici figli dei divoratori di carne. E’ per questo che sono i figli dei pastori ad inventare il diritto e che “s’inchinano alla legge”. E senza cane nemmeno agricoltura. Perché il pastore è nomade, ma poi quando trova un posto che gli piace ci si ferma e diventa contadino. E inizia l’attività del commercio. E con il commercio la navigazione. I navigatori, figli di contadini e nipoti dei pastori, si avventurano per mare alla scoperta di nuovi mondi. Mentre chi vive per la caccia resta a terra e non si allontana. Per cui “senza cane, niente navigazione”. E senza cane, eterna lotta con le belve. Ma il cane veglia sull’uomo e lo lascia dormire. E il sonno rilassato del pastore che fuori dalla sua capanna ha un cane a difenderlo è molto diverso dall’inquieto sonno del cacciatore dietro il fuoco, continuamente attento a non divenire preda di qualcun altro. Il selvaggio non ha tempo di pensare a Dio.
“Senza cane, niente amore”. Il pastore può pensare alla famiglia e al focolare, mentre il cacciatore possiede la donna e di nuovo se ne va in cerca di cibo o a combattere i nemici. Senza casa, niente famiglia e tradizioni. Senza cane, quindi, niente amore e poesia. La prima delle arti. “Il pastore canta, il cacciatore grida”. Senza cane, niente musica, architettura, vino e danza.
“Senza cane, niente uomo”.